Officina di Storie 2021: WalkingTales / I percorsi della memoria

IL SENTIERO DEI MULINI

Avete mai visto un mulino ad acqua? Certamente sì se abitate nelle Dolomiti. Di mulini ce n'erano in tutti i paesi e anche nelle frazioni. E non solo per il poco grano o frumento che veniva coltivato nei campi, ma tanto per quello che veniva barattato o acquistato in pianura. Un tempo non si acquistava, come ora, la farina, magari sottovuoto, già pronta solo da mettere in pentola. Si acquistava o barattava il grano che veniva poi macinato nei mulini dei paesi. A #Cimolais si ricordano ben 4 mulini di cui uno ancora oggi visibile, anche se adibito a casa di abitazione. I mulini sorgevano sulle rogge dove era possibile trovare, tramite, l'acqua la forza motrice per far girare la ruota e quindi le macine, di pietra, visibili sempre nel nostro Sentierodeimulini.
Il Sentiero dei Mulini ripercorre la storia e la localizzazione di mulini che in Cimolais si trovano lungo la roggia che costerggiava il Cimoliana.
Il primo mulino è quello della fam. di Protti Luigia ed è sttao riconvertito a casa abitazione.
L’altro è quello di proptietà di Protti Antonio Silvio, che abbiamo recuperato e risistemato, un terzo è andato perso. Sono stati posizionati 2 cartelli con la descrizione dei mulini
L’acqua, risorsa disponibile in abbondanza, ha permesso che Cimolais si dotasse, almeno per un periodo della sua storia, di ben quattro mulini. L’ultimo a cessare l’attività, dopo alterne vicende, negli anni Quaranta, si trova all’altezza dell’abitato, orami riconvertito ad abitazione privata.
Di un secondo mulino, posto sulla sponda sinistra della Roggia Cimoliana, ci attesta l’esistenza una mappa – purtroppo mutila – del 1849. Indicato in essa come Vecchio Molino, lo ritroviamo citato nel 1897 nei documenti di Felice Protti Meo, co-proprietario della segheria di Cimolais e falegname. Di proprietà della famiglia, l’edificio è denominato Molino da granturco ora dirocato. Lo stesso Felice Protti nel 1898 liquiderà con il Molino e campo alla croce una cambiale nei confronti di Matteo Bressa fu Osvaldo.
Un terzo edificio adibito alla macinazione si trovava nel presente sito; ne rimangono purtroppo solo le tracce delle mura perimetrali e due macine. Indicato nella mappa del 1849 come Molino Protti Dionisio, venne distrutto definitivamente dall’alluvione del 1928, dopo aver già subito i danni di quella del 1882. Se mancano al riguardo altre testimonianze scritte – le date di fondazione, come i nomi dei primi proprietari, si perdono in un indistinto passato – possiamo ancora rivivere, grazie alle memorie di chi per ultimo ha visto funzionare macine e setacci, alcuni frammenti di un mondo perso per sempre. E magari sentire per un attimo il veloce precipitare dell’acqua sulle pale, o trovarci tra i capelli uno sbuffo di farina, dono dei preziosi chicchi di mais o frumento, e conquista tenace di un “saper fare” radicato nel tempo.
Attingendo ai ricordi di famiglia, la signora Luigia Protti, i cui genitori gestirono per ultimi il mulino posto più a valle, narra a proposito del Molino Protti Dionisio:
«C’era un altro mulino a Cimolais. Era su lì, prima della sega, è rimasta ancora la macina. Quando è venuto giù il Sciol del Fer era in pericolo. Eran due tre famiglie, il mulino, era di due tre padroni. Han fatto di tutto per veder di parar via l’acqua, e invece…l’acqua l’ha portato via. Eran rimasti in piedi i muri, ma un po’alla volta…».
Un altro sicuramente lungo il Sciol della Tremenigia di proprietà della famiglia Lucchini.
Dei mulini di Cimolais oggi rimangono qualche frammento di mura e due macine del Molino Protti Dionisio. Poco, è vero, ma abbastanza perché il ricordo, non poi così lontano, ancorandosi a delle testimonianze materiali possa parlarci ancora a lungo. Di acqua che scende dalle montagne, di carri che, trainati dalle donne, risalgono la Valcellina carichi di pannocchie, di sacchi di iuta colmi, non forse di farina, ma certo di storia.

L’ULTIMO MULINO DI CIMOLAIS
«Macinavamo sia farina da polenta che farina di fiore. Quella di fiore non si poteva passarla per le scatole che giravano, sennò si ingombravano, perché in tempo di guerra si macinava anche la segala. E allora s
i macinava apposta a mano la farina per fare il pane. Macinavamo tanta biava, il frumento era più un lusso. Andavano le donne a procurarselo… a volte si andava a castagne su per Castelmonte, e poi le portavamo giù in pianura a barattare col grano, o con le pannocchie. Quando portava il sacco al mulino, la gente voleva dare i soldi, e allora mia mamma diceva: – Nella caldera non si mettono i soldi, meglio la farina! -. Ci portavano su anche i fagioli, per pagare, in cambio della macinazione».
Le parole di Luigia Protti, la cui famiglia gestì l’ultimo mulino di Cimolais, quello posto più a valle, ci descrivono in sintesi il ciclo produttivo della macinazione, basato su una tecnologia essenziale (una ruota con pale azionata dall’acqua muove, grazie ad un albero di trasmissione, la macina in pietra, segue quindi la setacciatura manuale con il tamìs), fino alla vendita del prodotto finale, eventualmente trattenuto in parte dai mugnai come compenso.
«Il mulino era di gente di qui, poi è andato in fallimento e nessuno lo voleva, e un prete, don Bassi, lo ha preso lui, e ha messo dentro un certo Piero Redivo, da Roveredo. Questo qui aveva tanta testa, questo Redivo, e ha tirato su tutto un fabbricato per metter su la corrente, che in Valcellina non c’era, con la dinamo. Era nel Ventiquattro, Venticinque. E ha fatto la luce per tutto il paese».
Un esperimento che purtroppo non durò a lungo, soppiantato dalla centrale di Claut. Il mulino continuò però ancora per alcuni anni la sua attività:
«Poi siamo andati giù noi, corrente non c’era più, erano rimasti tutti gli impianti, ma era un disastro, laggiù. Sarà stato nel Trentaquattro, Trentacinque, che siamo andati giù, Trentasei. Quando mancava l’acqua, si fermava anche il mulino, e allora mio papà doveva andar dentro per la valle, dove era rotta la canaletta».
Nelle circostanze critiche del periodo bellico il mulino diviene meta privilegiata dei partigiani in cerca di approvvigionamenti e ospitale nascondiglio di fortuna per i giovani del paese in fuga dai tedeschi.
«È stata dura, perché dovevi macinare di notte, e si mettevano su gli stracci neri perché non si vedesse la luce, c’era il coprifuoco e dovevi stare attenta. Dopo la guerra si lavorava poco, e abbiamo chiuso subito, non valeva la pena continuare».
Ormai chi deve macinare mais o frumento si reca a Claut, o più spesso ad Erto. Ma il mondo è in rapida trasformazione, e con la fine dell’economia di sussistenza anche i piccoli mulini di paese sono destinati ad andar via via scomparendo.

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Collezione

Ecomuseo Lis Aganis - Ecomuseo delle Dolomiti Friulane

Autore

Associazione Intorn al Larin

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