Il mestiere dell'arvâr
Malinconiche partenze, sospirati ritorni, notti insonni, piedi gonfi, volti adombrati dal sole e dalla fuliggine Questo mestiere è nato circa 250 anni fa ed ha avuto ragione di esistere fino a quando nelle cucine si usavano utensili di rame, proprio perché consisteva nel ripararli. Partivano da Tramonti subito dopo carnevale diretti verso località lontane come Bologna, Vicenza, Verona, Padova, Rimini e ritornavano a casa pochi giorni prima di Natale. Durante il periodo che trascorrevano a casa gli stagnini conducevano una vita oziosa, il più delle volte in osteria, consumando spesso lì tutto il denaro della stagione. Così al momento di partire erano talvolta costretti a farsi prestare i soldi necessari per il viaggio. Gli stagnini lasciavano il loro paese natio a piedi e con pochi utensili necessari: i ferri del mestiere, scatole di ribattini di ogni genere, il saldatoio, pezzi di rame, il soffietto che serviva a mantenere il fuoco acceso. In principio viaggiavano a piedi e dopo i primi anni di guadagno alcuni avevano un carretto trainato da un cavallo con due ruote molto grandi di legno cerchiate di ferro. Altri invece erano riusciti a procurarsi una bicicletta. Portavano con sé dei ragazzini, i garzoni, che avevano il compito di raccogliere nelle case il materiale da lavorare e un po’ alla volta imparavano il mestiere. I garzoni, a fine stagione, se avevano lavorato bene, ricevevano come compenso un vestito, spesse volte quello dismesso dallo stagnino. Oltre al tipo di vita nomade che conducevano, gli stagnini avevano un particolare gergo (l’arvâr), inventato da loro che nulla ha a che fare con il friulano. Questo linguaggio, che ha dei precedenti nelle parole segrete delle corporazioni medioevali, deve la sua esistenza alla necessità di poter comunicare fra loro senza la preoccupazione di essere capiti da alcuno. Ma come se la passavano? Il mestiere dello stagnino era veramente duro. Raggiungevano località lontane e conducevano una vita zingaresca. Mangiavano poco, male, saltuariamente e tante volte si affidavano al buon cuore delle persone che incontravano, di solito contadini. Lavoravano all’aperto, agli angoli delle piazze, sotto un portico o all’ombra di un albero accanto a una fontanella, attorniati da secchi, pentole, scaldini di rame e oggetti simili. Per dormire si arrangiavano come potevano. Nelle giornate fredde e umide sui fienili, nei pagliai o nelle stalle dietro la fila delle mucche, con la probabilità, non tanto remota, di fare una… bella doccia! Spesso d’estate, quando non minacciava la pioggia, dormivano all’aperto. I loro unici vestiti, spesso rattoppati, erano quelli con cui partivano da casa e che essi ben raramente lavavano. Le calzature erano tipici scarpetz, cuciti dalle donne e dovevano servire per tutta la stagione. Il gruppo era costituito da tre a sei/sette persone, era legato da vincoli parentali affettivi. Esso comprendeva il capo, gli stagnini, i garzoni esperti e i garzoni alle prime armi. A mezzogiorno interrompevano il lavoro per consumare il pasto che essi stessi cucinavano sopra un fuoco improvvisato accanto al carretto in pieno mercato: polenta, pastasciutta, formaggio, il tutto annaffiato da qualche bicchierotto di vino. Altrettanto succedeva verso sera, prima di ritirarsi per il riposo notturno negli stalli o nei fienili. Gli arvârs erano figure umili, anche se dignitosissime, del contesto sociale. Molti a fine carriera non sono rientrati nella valle. Si sono stabiliti definitivamente là dove erano apprezzati e stimati. Il mestiere dell’arvâr era una vera e propria arte necessaria per vivere, o meglio sopravvivere.
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